InControfase

Fine del loro primo e unico concerto.
Una data di una tourneè inesistente a tal punto stupefacente, che è stato normale per il pubblico immaginarsi e augurarsi l’inizio di chissà quali importanti progetti da parte della coppia. I due invece si sono accontentati o hanno finto di accontentarsi, solo di un assaggio.
Perché quel feeling che lì sul palco sembrava essere di un’intensità paragonabile solo a un suono di frequenza pari a 70 hertz percepito ai limiti della vibrazione toracica, e solo come questa in grado di scuotere le emozioni di chi ascoltava, è stato scrollato di dosso come se non fosse avvenuto nulla? Come mai appena l’orologio ha emesso il verdetto preindicato dal proprietario del locale, affinchè su quel preciso rintocco avvenisse la decapitazione della musica, loro lo hanno immediatamente esaudito? Nessuno dei due artisti si è ribellato, eppure dovrebbero saperlo che quando si suona bene insieme non ci si può fermare, soprattutto quando il crescendo orgasmico non sembra mai arrivare al termine. Il coito interrotto più che mai in questo caso è stato poco produttivo.
Mai una volta che sul palco si son guardati negli occhi seriamente, non ne hanno avuto il coraggio. Han preferito far credere all’altro che comunque fosse quello sarebbe stato un gioco, bello perché bello sarebbe stato romperlo subito, un’avventura usa e getta consapevole della sua eccezionalità. E anche se l’hanno sentita comprimere nel cuore, quella molla che avrebbe dovuto far gridare all’altro: "Noi due insieme spaccheremo il mondo!", non è scattata. Non l’han voluta far scattare.
Paura di cosa? Inibizione dovuta a che?
Lei e la sua graffiante voce, in grado d’insinuarsi sottopelle e scorrendo capace di urtare e sfiorare le vene, le quali sollecitate e solleticate giungono a gonfiarsi allo spasimo, fino a far ribollire i pugni stretti nella loro stessa morsa d’eccitazione implosiva.
Lui e la sua chitarra elettrica perlopiù così vorace nel mangiarsi le melodie costruite dalla voce, assorbendole fra le corde per poi risputarle fuori in un’amalgama corrosivo nevrotico come una piccola verde palla rimbalzina scagliata da un bambino non soddisfatto dai propri genitori a proposito del suo ennesimo capriccio assurdo; mentre altre volte il movimento delle dita era intento a farle uscire queste melodie, prima suggerendole, poi spingendole, accarezzandole, spingendole ancora, o controbattendole sia ritmicamente che con dissonanti contromelodie, arpeggi, oppure pause, affinchè risaltassero con ancor più splendore staccate com’erano dal resto, come una giovane principessa affacciatasi dalla balconata della propria stanza per godersi l’aria scheggiata proveniente dalle montagne sullo sfondo impressionato da un viola d’alba, e un cavaliere che dalla selva inaspettatamente la vede, e non visto è costretto a fermarsi dall’incredibile spettacolo che gli si presenta dinanzi: la bellezza della principessa ancor di più messa in evidenza dalla fatiscenza malinconica, incastonata nella lucida penombra mattutina, del castello da cui essa è sorretta.
La voce di lei è la principessa, la chitarra di lui è il castello spigolosamente diroccato. I frutti del loro incrociarsi e fondersi tra melodie, impasti e disgregazioni sonore varie, è tutto un gioco di luci e ombre, diurne e notturne, nelle quali nel loro connubio si mostrano all’occhio fortunato di chi può, e di chi avrebbe potuto in futuro ammirare.
È infatti terrificante e ingiusto lasciar che la principessa si suicidi o che il castello crolli, e che quindi per il cavaliere-ascoltatore non potrà più esser possibile avere una ragione per soffermarsi da lontano in direzione dell’evento magico, dimenticandosi per qualche istante dei ladri inesistenti a cui deve dare la caccia!
Se si deve cercare un disguido durante il concerto che possa giustificare la fine dell’inizio, può venire in mente solo quella manciata di secondi in cui l’udito del, fino ad allora, estasiato pubblico è stato minato e distolto da un principio di fischi simile a gesso tagliato di piatto e pressato su lavagna scolastica, misto ad un gracchiare tipo coro di ranocchiette orgiastiche, offuscanti la voce di lei mentre strofeggiava: " Ora tu impari sulla mia pelle a schiacciare gl’insetti isterici della tua mente…" , subito risolto dallo stesso fonico provocante il danno, che chissà per quali pruriti suoi aveva toccato il livello di volume in entrata, distorcendo arrogantemente la sublime voce, la quale non desiderava altro che rimanere fedele a sé stessa. Ovvio perciò che questo non intacca affatto i meriti dei nostri due eroi.
Non c’è proprio alcun motivo apparente che renda credibile alla fine del concerto la fredda stretta di mano, quasi timorosa, con la quale si sono salutati e senza nemmeno aver bevuto una birra insieme.
Forse almeno uno dei due(basta uno e l’altro si annulla) o entrambi, han creduto che l’altro non fosse intenzionato a continuare, forse per non rovinare nel ricordo la bellezza di quell’evento temuto come irripetibile(e questa sarebbe stata la solita scusa), oppure non hanno osato proporsi nulla di durevole per non far credere all’altro di non riuscire comunque a suonare allo stesso modo anche da soli o con chissàcchì. E per paura di perdere quella luccicante stima reciproca fino ad allora alimentata, è stata innalzata la solita barriera dietro cui nascondersi e marcire.
Così ciascuno dei due tornerà a scriversi le proprie canzoni masturbandosi sul proprio strumento, togliendosi la possibilità di compensare i propri consapevoli vuoti creativi con il talento perfettamente incastrabile al proprio dell’altro, quando già era risultato evidente da quel concerto che solo insieme potevano raggiungere la di sé tanto ambita inglobante sensazione di pienezza artistica.
E quando in studio di registrazione intenti separatamente e in tempi diversi a farsi su un demo con i propri pezzi, ripiegati su se stessi come tipiche solitudini dimezzate, si bloccheranno appena il tecnico del suono gli ricorderà semplicemente come avverà la registrazione stereofonica, poiché il senso di colpa li assalirà pensando che solo all’altro sarebbe dovuta appartenere la traccia di sinistra se non quella di destra, poi da entrambi contaminate; solo con lei o con lui avrebbero potuto aprire la sensazione spaziale di suono, per stupirsi ogni volta da destra o da sinistra l’uno della trovata dell’altro, per infine risolversi in centro, abbattendo limiti poi sprigionanti energia pura tendente all’infinito.



Ispirato da taluni appunti di fonica
dalla musica dei Sonic Youth
da "Fedra" di Ghiannis Ritsos
Parma 3/07/03
Con alcune modifiche del 27/11/03

Nessun commento: